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Sellerio

Sellerio

Pista nera

Antonio Manzini
Antonio Manzini
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€ 13,00 

Semisepolto in mezzo a una pista sciistica sopra Champoluc, in Val d’Aosta, viene rinvenuto un cadavere. Sul corpo è passato un cingolato in uso per spianare la neve, smembrandolo e rendendolo irriconoscibile. Poche tracce lì intorno per il vicequestore Rocco Schiavone da poco trasferito ad Aosta: briciole di tabacco, lembi di indumenti, resti organici di varia pezzatura e un macabro segno che non si è trattato di un incidente ma di un delitto. La vittima si chiama Leone Miccichè. È un catanese, di famiglia di imprenditori vinicoli, venuto tra le cime e i ghiacciai ad aprire una lussuosa attività turistica, insieme alla moglie Luisa Pec, un’intelligente bellezza del luogo che spicca tra le tante che stuzzicano i facili appetiti del vicequestore. Davanti al quale si aprono tre piste: la vendetta di mafia, i debiti, il delitto passionale. Difficile individuare quella giusta, data la labilità di ogni cosa, dal clima alle passioni alla affidabilità dei testimoni, in quelle strette valli dove tutti sono parenti, tutti perfettamente a loro agio in quelle straricche contrade, tra un negozietto dai prezzi stellari, un bar odoroso di vin brulé, la scuola di sci, il ristorante alla mano dalla cucina divina. Quello di Schiavone è stato un trasferimento punitivo. È un poliziotto corrotto, ama la bella vita. È violento, sarcastico nel senso più romanesco di esserlo, saccente, infedele, maleducato con le donne, cinico con tutto e chiunque, e odia il suo lavoro. Però ha talento. Mette un tassello dietro l’altro nell’enigma dell’inchiesta, collocandovi vite e caratteri delle persone come fossero frammenti di un puzzle. Non è un brav’uomo ma non si può non parteggiare per lui, forse per la sua vigorosa antipatia verso i luoghi comuni che ci circondano, forse perché è l’unico baluardo contro il male peggiore, la morte per mano omicida («in natura la morte non ha colpe»), o forse per qualche altro motivo che chiude in fondo al cuore.

Riguardo al libro
Semisepolto in mezzo a una pista sciistica sopra Champoluc, in Val d’Aosta, viene rinvenuto un cadavere. Sul corpo è passato un cingolato in uso per spianare la neve, smembrandolo e rendendolo irriconoscibile. Poche tracce lì intorno per il vicequestore Rocco Schiavone da poco trasferito ad Aosta: briciole di tabacco, lembi di indumenti, resti organici di varia pezzatura e un macabro segno che non si è trattato di un incidente ma di un delitto. La vittima si chiama Leone Miccichè. È un catanese, di famiglia di imprenditori vinicoli, venuto tra le cime e i ghiacciai ad aprire una lussuosa attività turistica, insieme alla moglie Luisa Pec, un’intelligente bellezza del luogo che spicca tra le tante che stuzzicano i facili appetiti del vicequestore. Davanti al quale si aprono tre piste: la vendetta di mafia, i debiti, il delitto passionale. Difficile individuare quella giusta, data la labilità di ogni cosa, dal clima alle passioni alla affidabilità dei testimoni, in quelle strette valli dove tutti sono parenti, tutti perfettamente a loro agio in quelle straricche contrade, tra un negozietto dai prezzi stellari, un bar odoroso di vin brulé, la scuola di sci, il ristorante alla mano dalla cucina divina. Quello di Schiavone è stato un trasferimento punitivo. È un poliziotto corrotto, ama la bella vita. È violento, sarcastico nel senso più romanesco di esserlo, saccente, infedele, maleducato con le donne, cinico con tutto e chiunque, e odia il suo lavoro. Però ha talento. Mette un tassello dietro l’altro nell’enigma dell’inchiesta, collocandovi vite e caratteri delle persone come fossero frammenti di un puzzle. Non è un brav’uomo ma non si può non parteggiare per lui, forse per la sua vigorosa antipatia verso i luoghi comuni che ci circondano, forse perché è l’unico baluardo contro il male peggiore, la morte per mano omicida («in natura la morte non ha colpe»), o forse per qualche altro motivo che chiude in fondo al cuore.
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